La morte estromessa e l'educazione all'impronunciabile

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Tiziana Iaquinta

Abstract

Educare alla perdita è un paradosso. Il dolore del lutto non soltanto coglie sempre impreparati, ma quel che fa rilevare è la quasi “disconoscenza” di questo possibilità, che è invece certezza nell’esistere umano, in chi si trova a farne esperienza. La perdita di una persona cara si accompagna, nel nostro tempo, ad elementi di sbalordimento e di incredulità, quasi come se essa non fosse la meta di ogni venuta al mondo, di ogni nuova nascita. Alla perdita si pensa illogicamente, da qui l’esserne sorpresi, come evento possibile nella vita altrui e mai nella propria. L’Altro con il quale, in tali circostanze pensiamo di non avere, e di non voler avere, quasi per timore di un “contagio”, nulla in comune.


Eppure, proprio in quest’epoca di negazione e rimozione del dolore, in cui si cerca affannosamente di dimenticare il limite creaturale che contrassegna l’esistenza di tutti, in cui il soggetto si trova ad essere sempre più solo davanti alle cesure della vita, l’educazione è chiamata ad assumere sino in fondo il suo compito. Educare alla morte, alla finitudine e alla sofferenza è una sfida che la pedagogia deve accogliere. Coscientizzare su temi complessi, delicati e fondamentali, come lo sono la morte e il dolore, significa spingere la pedagogia, e di conseguenza l’educazione, a nominare ciò che se da adulti si fa fatica a considerare e, nel caso dei bambini, risulta addirittura impronunciabile. Negare, rimuovere, esorcizzare, sono pertanto i verbi che descrivono e sintetizzano il rapporto soggetto – morte – dolore nel nostro tempo e che non consentono di progettare e mettere in campo azioni educative - elaborative che possano aiutare il soggetto a confrontarsi con il limite, ad accettare il dolore, ad accogliere il proprio vissuto, a resistere.


Attraverso la narrativa si possono avviare percorsi di educazione alla morte, alla finitudine e alla sofferenza.

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Sezione
Saggi

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