Si può vivere "senza” lavoro? Il lavoro è o non è un bene comune?
Sono passati anni da un famoso volume di Rifkin dal titolo “La fine del lavoro” e dal “Manifesto del post-work” di Aronowitz in cui si immaginava una nuova società in cui il lavoro avrebbe assunto nuove forme, da una parte, incrementando fenomeni complessi come la disoccupazione e la mobilità e, per paradosso, dall’altra, aprendo a possibilità di ripensare il rapporto tra vita e lavoro, fino a estremizzarlo nella scelta di lavorare meno per vivere meglio.
Possibilità questa che, nel ventunesimo secolo, soprattutto in epoca post-pandemica, ha trovato la sua manifestazione più eclatante nei fenomeni della great resignation e del quiet quitting che raccontano di uomini e donne disposti a rinunciare a un lavoro sicuro, a “lavorare meno” per un lavoro di qualità o di "prendere le distanze" e dar nuovo senso all'attività professionale per recuperare e non perdere la dignità del soggetto-persona e la qualità della vita.
Ma si può davvero vivere "senza" lavoro?
Il presente numero di MeTis si interroga, allora, su cosa voglia significare in termini pedagogico-antropologici "vivere senza lavoro", guardando ai due estremi della disoccupazione e della precarietà e, dall'altro lato, a fenomeni quali la great resignation e il quiet quitting: nella consapevolezza che, come diceva Nussbaum, la libertà sta nel poter scegliere.
Pubblicato: 2024-07-12