“Le parole sono pietre, possono essere pallottole. Bisogna saper pesare il peso delle parole e soprattutto far cessare il vento d’odio che è veramente atroce. Lo si sente palpabile attorno a noi” (Camilleri).
È il paradosso, quello icasticamente descritto da Camilleri, di un “immateriale e invisibile palpabile”, di un “quid” fatto della stessa sostanza di ciò che ci mantiene in vita – l’aria che respiriamo – e che, però, può arrivare a uccidere. Spingendo giovani fragili a decidere di mettere fine alla propria vita; abbandonando donne, bambini e adulti alla deriva in balia delle onde; trasformando la libertà di parola in “libertà di uccidere”, di ferire, di offendere e accusare; rispondendo con la violenza alla violenza della parola, del pregiudizio, dello stereotipo ghettizzante, della forzata e forzosa tolleranza, della paura subita e agita.
Non è solo una questione di odio razziale, xenofobo, etnocentrico. È un problema di istigazione all’odio contro la “differenza”, che si caratterizza per l’utilizzo di espressioni che diffondono, incitano, promuovono e sostengono rappresentazioni riduttive e denigranti. Al punto che il rischio imperante è l’abitudine all’odio, l’assuefazione alla “banalità del male” e all’ingiuria. Si tratta, allora, del rischio di abbandonare uomini e donne a una formazione – cognitiva, emotiva ed etica – collerica e intollerante, ad una strutturazione di mappe mentali che dell’odio facciano lo stile per connettere mondo interno e mondo esterno.
Pubblicato: 2020-01-02